Il governo cinese sta cercando di favorire lo studio della lingua in tutto il mondo, basti pensare ai sussidi ai licei e alle università statunitensi e alle iniziative mirate dell’Istituto Confucio. Diversi commentatori osservano che si tratterebbe di una strategia per diffondere ancora di più l’egemonia di Pechino a livello globale attraverso la promozione di un’immagine positiva del paese. Non mancano poi gli endorsement da parte di personaggi di spicco come Mark Zuckerberg, che ha dichiarato di dedicarsi con tenacia allo studio del mandarino.
Il dubbio è legittimo: ne vale la pena? Per chi lavora con l’estero l’inglese potrebbe bastare. Ma non in Cina, il mercato a cui tutti oggi puntano. Se appare improbabile che il cinese possa rimpiazzare il ruolo riconosciuto a livello mondiale dell’inglese come lingua del business, la conoscenza del mandarino sembra oggi un asso nella manica per chi voglia fare affari laggiù. Seguire trattative commerciali e negoziazioni con un partner cinese nella sua lingua appare insomma un indiscutibile vantaggio.
Inoltre, se è vero che lo studio dell’inglese è sempre più diffuso in Cina e il paese è diventato sempre più attrattivo per gli studenti internazionali, è un errore credere che si possa sempre utilizzare l’inglese nel mondo professionale cinese, al di fuori di Pechino, Shanghai e Hong Kong.
Qual è allora lo scoglio? La difficoltà estrema. Studiare il cinese richiede un investimento enorme di tempo. Occorre poi considerare che la lingua standard, il mandarino parlato a Pechino, si discosta dai numerosi dialetti diffusi nel resto. A voi la scelta. In alternativa, potreste incoraggiare i vostri figli e nipoti a buttarsi sul cinese, come ha fatto Donald Trump.